è presupporre che esso sia conforme a natura
Sarebbe un grave errore
pensare che il pensiero democratico sia intrinsecamente più «liberale»
e più tollerante di una qualsiasi altra ideologia politica.
L’equivoco
nasce dal fatto che è divenuto un luogo comune affermare che la
democrazia è più debole – ma anche eticamente superiore – a ogni altro
pensiero politico, per il fatto che essa si impegna a garantire la
libera espressione del dissenso anche a quanti non la condividono,
permettendo così ai suoi mortali nemici di prosperare e di godere di
quegli spazi di manovra che essi, andati al potere, si affrettano a
revocare nei confronti di tutti gli altri.
Ora, a parte il fatto che
bisognerebbe spiegare ai detenuti di Guantanamo o alle vittime dei
villaggi vietnamti, iracheni e afghani in che cosa consista tale
supposta debolezza e tale supposta tolleranza, come pure agli abitanti
di Hiroshima e Nagasaki, resta il fatto che se è vero che la democrazia
predica il rispetto formale delle altrui opinioni, di fatto essa si
ritiene l’unica ideologia politica realmente conforme a natura, in
quanto basata sulle libertà naturali, e appunto perciò inalienabili,
dell’uomo. (Notiamo, per inciso, che delle altre specie viventi la
democrazia non fa parola, perchè, essendo una ideologia antropocentrica
e sviluppista, considera del tutto normale che l’uomo possa disporre a
suo piacere della natura).
Ne consegue che i cultori della
democrazia non possono non guardare ad essa come a una realtà che,
presto o tardi, finirà per imporsi ovunque, insieme al libero mercato,
alle meraviglie della tecnologia e all’economia globalizzata: versione
laica e post-moderna dello Spirito Assoluto di hegeliana memoria;
oppure, se si preferisce, versione borghese del materialismo dialettico
della Vulgata marxista. In entrambi i casi, si tratta della ferma
convinzione che la propria idea politica corrisponde a una necessità
della Storia e che, pertanto, presto o tardi finirà per imporsi
ovunque: più o meno come i telai meccanici si sono imposti alle
manifatture domestiche e hanno avuto la meglio (a suon di condanne a
morte) sulla patetica resistenza dei luddisti, nell’Inghilterra della
prima Rivoluzione industriale.
È ovvio che, se qualche società o
qualche Stato si ostina a resistere un po’ troppo a lungo alle
«magnifiche sorti e progressive», allora un piccolo aiutino alla marcia
trionfale del Progresso diventa lecito, se non addirittura doveroso:
come si può tollerare, infatti, che alcuni esseri umani continuino ad
essere esclusivi dai benefici della democrazia, loro «naturale»
diritto? Di qui alla teoria della guerra preventiva, o a quella della
guerra umanitaria, il passo è breve: e, come abbiamo visto, non ci
vuole molto a compierlo, quando si verifichino le condizioni adatte.
Non
vogliamo, tuttavia, impostare la presente riflessione sul terreno del
pensiero politico, ma su quello della concezione antropologica
presupposta dai sostenitori della «naturalità» della democrazia e della
«innaturalità» degli altri sistemi politici.
Il pensiero democratico
moderno (quello antico meriterebbe un discorso a parte, che ci
riserviamo di svolgere in altro momento) è figlio del pensiero
liberale; se non ci fossero stati l’Illuminismo e la Rivoluzione
francese, non sarebbe nata l’idea democratica. A sua volta, il pensiero
liberale è figlio del pensiero giudaico-cristiano: senza il messaggio
evangelico della uguaglianza di tutti gli esseri umani davanti a Dio,
non ci sarebbero stati Lock e Rousseau, né gli «immortali principi»
dell’89, al coro di «Liberté, Fraternité, Egalité». Ovvio.
Quello
che è meno ovvio, a quanto pare, è che il pensiero democratico moderno
ha fatto una deliberata confusione tra l’idea cristiana della
eguaglianza spirituale degli uomini, in quanto figli di Dio, e quella
della loro eguaglianza politica, in quanto soggetti dei medesimi
diritti, cosa che presuppone, manifestamente, anche la loro
eguaglianza, o equivalenza, in fatto di capacità intellettuali, di
attitudini morali, di esercizio attivo della propria cittadinanza: il
che è, altrettanto manifestamente, assurdo.
Eppure, lo slogan «un
uomo, un voto», si regge proprio su questa deliberata confusione
concettuale: si parte dalla (giusta) considerazione che ogni uomo deve
godere di una pari dignità morale e giuridica, e si arriva alla
(assurda) conclusione che ogni uomo è perfettamente in grado di
svolgere una partecipazione attiva alla vita politica, esercitando il
proprio diritto di voto e ricoprendo qualsiasi funzione amministrativa
e politica; anche se, in realtà, non ne possiede né le capacità, né le
attitudini e neppure il desiderio o l’interesse.
Questo non è
affatto pessimismo antropologico, ma è quanto emerge da una spassionata
e oggettiva valutazione dei fatti. Vi sono molte persone, diciamo pure
la maggioranza, che non sono in grado di comprendere nemmeno le basi
essenziali della politica; e che, nondimeno, esercitano esattamente lo
stesso peso elettorale di chi possiede capacità eminenti e ogni altra
attitudine per svolgere un ruolo altamente positivo nel contesto della
vita associata.
E questo che diciamo per la politica, vale per ogni
altro campo del pensiero e dell’attività umana; non solo: vale, prima
di tutto, ed a maggior ragione, nell’ambito di qualsiasi forma di vita
sociale, dalla più banale assemblea di condominio alla più sublime
forma di servizio e di missione spirituale, quale può essere quella di
un grande maestro religioso. Perché il fatto vero, evidente,
innegabile, e che tuttavia i cultori della democrazia non vogliono
vedere e si rifiutano di ammettere, è che esistono due grandi categorie
di uomini (astraendo da quanti sono colpiti da forme di invalidità o
malattia vera e propria): coloro i quali sentono, pensano e agiscono in
profondità, e che sono guidati da un alto senso del dovere e della
responsabilità; e coloro i quali vivono all’insegna della
superficialità, della convenienza personale, della furbizia da quattro
soldi.
Esistono, naturalmente, infinite sfumatue intermedie; ed
esiste la possibilità di cambiamenti, per cui – talvolta – accade che
degli esseri umani passino dall’uno all’altro di questi due gruppi
fondamentali; ma, nel complesso, la distinzione che abbiamo fatta è
quella su cui si regge la storia umana, per chiunque abbia occhi per
vedere e non si lascia accecare da pregiudizi di alcun genere, per
quanto «buonisti» e bene intenzionati.
Ebbene, è proprio questa
semplice verità che ripugna profondamente ai cultori del pensiero
democratico: pur di non rinunciare alla loro finzione di una umanità
fondamentalmente omogenea, essi sono disposti a dare torto ai fatti di
cinquemila anni di storia e ripetono, senza stancarsi mai, che, se
opportunamente educato e indirizzato, anche l’uomo più meschino e
insignificante può divenire un cittadino esemplare e un nobile
sostenitore dei sacrosanti principi di libertà, fraternità e
uguaglianza, ossia dei fondamentali diritti «naturali».
Lasciamo
perdere, per ora, quanto di buona fede e quanto di mala fede ci possa
essere dietro una posizione così palesemente assurda e insostenibile;
lasciamo perdere, cioè, se dietro tanti integerrimi bardi del pensiero
democratico non vi siano che dei prezzolati propagandisti dei poteri
occulti, i quali hanno bisogno della menzogna egualitaria per poter
meglio dominare e asservire la società, appiattendo e livellando
l’opinione pubblica e spegnendo ogni focolaio di pensiero veramente
libero e indipendente. Non è questo che ci interessa discutere, in
questa sede; ne parleremo, semmai, un’altra volta.
Quello su cui ci
preme riflettere, ora, è l’estrema fragilità, per non dire l’assoluta
inconsistenza, della tesi secondo cui si potrebbe parlare dell’«uomo» e
della «umanità» come se tali termini designassero delle categorie
sostanzialmente omogenee, più o meno come si potrebbe parlare
dell’insieme dei larici, delle betulle, dei leoni o dei delfini. A
parte il fatto di avere due braccia, due gambe, due occhi e una bocca,
nonché la stazione eretta, il pollice opponibile e un linguaggio di
tipo vocale e articolato, gli esseri umani presentano delle differenze
intellettuali e, soprattutto, spirituali, così profonde, da far pensare
che non esista affatto un «genere umano», per il semplice fatto che la
natura umana é un’astrazione, una meta ed un compito da realizzare
eventualmente, non una realtà data.
L’uomo, insomma, è un
dover-essere, non una creatura definita, se non a livello puramente
biologico; ma quello che segna la differenza più grande fra uomo e
uomo, è appunto il diverso grado di consapevolezza di tale verità. In
altri termini, vi sono uomini (e donne) consapevoli di questo loro
dover-essere, ed altri (e altre) che non lo sono affatto; uomini che si
pongono lo scopo del proprio perfezionamento spirituale, che cercano di
elevarsi intellettualmente e spiritualmente, di purificarsi, di vincere
il proprio egoismo istintivo, di aprirsi all’amore disinteressato; ed
altri che non ci pensano minimamente e, anzi, si ritengono moto in
gamba ogni qual volta riescono a fregare il prossimo, a ingannare
quanti si fidano di loro, a tradire i giuramenti più sacri: il tutto in
nome del proprio successo materiale e della propria affermazione
sociale.
Tale è la «materia prima» con la quale i cantori della
democrazia pensano di poter erigere il loro splendido edificio; e la
cosa è resa ancor più problematica dal fatto che le regole stesse della
democrazia sembrano fatte apposta (e forse lo sono) per facilitare
l’ascesa dei più ambiziosi, spudorati, cinici e disonesti, e non certo
dei più riflessivi, onesti, leali e disinteressati; in breve: dei
peggiori, e non certo dei migliori.
Non vogliamo trarre, da questo
ragionamento, la conclusione che tutto il pensiero democratico è un
diabolico inganno e che va gettato nel cestino della carta straccia;
vogliamo trarne, invece, l’ammonimento a non porre la democrazia come
un dato «naturale» o come un monumento sul piedistallo, da adorare
incondizionatamente; ma, semmai, come un faticoso punto d’arrivo verso
il quale bisogna tendere, ma mettendo in opera tutte quelle strategie
che la possano rendere viva e operante, nella piena consapevolezza
della estrema difficoltà di un tale progetto.
Due sono, infatti, i
pericoli più grandi che minacciano la società democratica: uno è
l’azione dei poteri occulti che, in essa, trovano il modo di dispiegare
agevolmente tutta la loro malefica influenza; l’altro è la sfrenata
demagogia dei suoi ottimistici sacerdoti i quali, astuti o folli – come
direbbe il Leopardi de «La ginestra» – o ingannano sé medesimi, o
vogliono ingannare il prossimo, allorché sostengono che gli uomini sono
naturalmente portati alla libertà e, quindi, all’esercizio della
democrazia.
Non è vero: la premessa è sbagliata. Erich Fromm ha
mostrato in modo esemplare che molti uomini e intere società sono
continuamente tentati di fuggire dalla libertà, come da un fardello
insopportabilmente gravoso. E fuggono non solo, come pensava Fromm, in
direzione dei totalitarismi, vere e proprie semplificazioni del modello
politico-sociale e culturale; ma anche, più semplicemente – e, a nostro
avviso, più tragicamente – verso il grande Nulla della stupidità, della
volgarità e della insulsaggine oggi dilaganti.
Conosciamo
personalmente, tanto per fare un esempio, persone che votano per il
maggior partito attualmente al governo, per la ragione che il
presidente del Consiglio è il presidente del Milan. Si badi: non perché
egli è ANCHE presidente del Milan: ma PROPRIO perché è il presidente
del Milan. A questo punto, è chiaro che l’interesse dei poteri forti –
e, in gran parte, occulti – diventa, evidentemente, quello di agire su
questo fondo di suprema stupidità, allo scopo di rendere gli esseri
umani, se possibile, ancora più stupidi; e di avvilirli, facendoli
sprofondare, se possibile, ancora più in basso. Sempre nascondendosi
dietro gli slogan demagogici secondo i quali bisogna dare alla gente
ciò che essa vuole: come dire che, se la gente vuole escrementi per
colazione, pranzo e cena, quelli bisogna darle, beninteso con tutti i
crismi della libertà e della democrazia.
Abbiamo già sostenuto, in
un recente articolo, che gran parte degli esseri umani sono dei
dormienti i quali, se destati dai loro sogni voluttuosi, tendono a
diventare feroci e a rivoltarsi contro coloro i quali li hanno
richiamati alla realtà. Allo stesso modo si può affermare che l’inganno
della democrazia si basa sul fatto che quelli stessi che, sfruttando il
potere mediatico, fanno di tutto per rincretinire il pubblico, sono
proprio coloro i quali levano alte strida «democratiche» allorché
qualcuno denuncia i loro secondi fini, accusandolo di disprezzare la
volontà popolare.
Già: ma la volontà popolare non dovrebbe essere
un feticcio sacro e intangibile: essa è una pura astrazione, sia perché
facilmente manipolabile da pressioni esterne, sia perché risulta dalla
somma aritmetica, e perciò disordinata e disarmonica, di situazioni
umane fra loro incommensurabili, riflettenti la fondamentale
bipartizione delle persone di cui si diceva prima.
Come si viene fuori da questa fondamentale aporia?
Semplice: non se ne viene fuori.
Una
delle grandi illusioni della democrazia (mutuata da Hegel, che pure non
era affatto un campione della democrazia) è che, grazie ad essa, si
possa mediare tutto, risolvere tutto, appianare tutto. La democrazia,
dunque, come «clavis universalis», come panacea per guarire tutti i
mali, come bacchetta magica per risolvere tutti i problemi. La
democrazia come toccasana autoevidente, in quanto ideologia tipica –
anzi, la sola ideologia legittima e riconosciuta – delle persone in
buona fede, delle «brave» persone.
Ma non è vero: ci sono cose che
non si possono mediare, che esigono un salto qualitativo da parte del
singolo individuo, se e quando egli decide di intraprendere il
difficile cammino del proprio dover-essere, cosparso di ostacoli e
poverissimo di gratificazioni che non siano quelle della propria
coscienza.
I democratici, pertanto, devono spogliarsi dei propri
complessi di superiorità; devono rivedere la bella favola che da se
stessi hanno costruito intorno alla propria ideologia; e, soprattutto,
devono liberarsi dallo spirito di crociata che li spinge a immaginare
che il mondo intero soffra e gema nell’attesa impaziente di ricevere da
loro il nuovo Vangelo della felicità universale.
Altrimenti
andranno incontro a molte, dolorose sorprese; come quella di scoprire
che, in certe parti del mondo, i Talebani o gli uomini di Al Qaida sono
più popolari dei leader «democratici» insediati a forza in quel di
Kabul o di Baghdad.
Non è vero che i democratici sono tutti bravi e
buoni, mentre i non democratici formano un’unica massa di cattivi
soggetti: questo fa parte della mitologia che i primi hanno costruito
su di sé, con intollerabile arroganza e con illimitato narcisismo.
La
democrazia è un sistema politico come un altro, con i suoi pregi e i
suoi difetti; e, se può dare discreti risultati in determinati tempi e
luoghi, non è però esportabile indiscriminatamente, specie in quelle
parti del mondo che hanno costruito dei percorsi storici molto diversi
da quello dell’Occidente. Come ogni altro sistema di governo, la
democrazia va storicizzata: è il risultato di un determinato sviluppo
politico, economico, sociale e culturale: non l’Alfa e l’Omega della
storia umana.
Signori democratici, un po’ di umiltà.
Il mondo
era già civile quando non aveva ancora elaborato niente di simile alla
democrazia. Le Piramidi d’Egitto, il Palazzo di Cnosso e la Grande
Muraglia cinese sono stati edificati senza di essa; Omero, Dante e
Leonardo da Vinci componevano le loro opere senza sentirne la mancanza;
Platone aveva espresso nei suoi confronti una profonda disistima,
specie dopo aver visto in che modo essa aveva condannato a morte
Socrate, «il migliore degli uomini». Per venire a tempi molto più
vicini a noi, Pirandello, Gentile e Ungaretti non ci credevano; ma,
volendo, l’elenco sarebbe assai lungo.
Ad ogni modo, ogni sistema
politico che parta da una antropologia erronea è destinato a non
reggersi: questa è la parte ancor viva della lezione di Machiavelli.
L’ideologia democratica non vede l’uomo quale egli è veramente, ma
attraverso le lenti deformanti del pregiudizio egualitario.
Ci si
potrebbe chiedere come mai, allora, essa si sia conservata, e sia pure
a fatica, dal XVII secolo ad oggi, e come sia riuscita ad estendersi da
piccole repubbliche come i Paesi Bassi, alla superpotenza statunitense.
Una possibile risposta, che certamente non piacerà ai democratici, è
che essa è troppo utile ai poteri occulti, per volerla sostituire con
altre forme di governo: si direbbe che essa sia la forma ideale per
consentire il massimo dominio con la massima discrezione.
E, se
qualcuno non ne fosse interamente persuaso, forse farebbe bene a
domandarsi come mai la stampa e i mezzi d’informazione parlino così
poco delle riunioni annuali del Gruppo Bilderberg o del meccanismo del
signoraggio, che rende le banche padrone di fatto dell’economia di
mezzo mondo: eventi i quali, d’altra parte, sono molto più
significativi per i destini del mondo, che non l’elezione di questo o
quel governo, o la transazione finanziaria di questo o quel gruppo
industriale, naturalmente sanzionata da tutti i crismi della
democrazia. Non è questa materia su cui riflettere seriamente?
Un’ultima,
piccola postilla su cui riflettere. Mentre stiamo scrivendo, il
correttore automatico del computer sottolinea in rosso le parole
«Bilderberg» e «signoraggio», segno che non le ha riconosciute. Cosa
altamente istruttiva: la cultura ufficiale delle democrazie non ha
voluto recepire le parole che pesano enormemente sulle nostre vite, ma
che tradiscono la lunghissima coda di paglia dei sistemi democratici.
crediamo, è la prova migliore del fatto che la democrazia, in pratica,
non è quello che vorrebbe far credere di essere: e che tutte le libertà
da essa sbandierate, a cominciare da quella del pubblico dissenso,
diventano lettera morta, se si cade nella madornale ingenuità di
pensare che esse siano garantite automaticamente.